lunes, 22 de diciembre de 2008

Identità sociale, identità personale e stigma.

Uno dei campi in cui emerge con particolare evidenza il confronto/contrasto fra i processi di identificazione personale e sociale è rappresentato dalla devianza.
Gli studi che appartengono alla tradizione sociologica e psico-sociale americana, dalle scuole struttural-funzionaliste a quelle che si ispirano all’interazionismo simbolico, propongono una serie di analisi di tipo qualitativo sulla formazione dei legami interpersonali, che finiscono col produrre modelli nuovi di spiegazione non solo dei meccanismi che palsmano lo sviluppo delle relazioni sociali, ma anche come a partire da esse, si riorganizzino le stesse istanze personali, che hanno a che vedere coi fattori profondi della psicologia individuale.
Secondo una simile prospettiva, l’analisi della devianza ha aiutato non poco a scoprire le motivazioni che spingono la società a generare i processi che promuovono la costruzione del consenso, ma non solo. Secondo il modello interazionistico anche la devianza risponde alle esigenze di riproduzione del sociale, in termini di adesione innovativa alla norma giuridica e morale.
I maggiori contributi offerti in letteratura sono quelli di R. Merton, che costituisce il punto di riferimento di gran parte della riflessione sulla devianza a partire dagli anni Sessanta, E. Lemert, T. Parsons, A. Cohen, che vedremo nell’ultimo capitolo di questo modulo, e E. Goffman, il cui contributo allo studio della formazione dell’identità lo vedremo qui di seguito.
La riflessione di Goffman ha origine attorno al concetto di "stigma".
Come egli stesso ricorda, sono i Greci i primi a servirsi di questa parola per designare una serie di segni fisici che vengono associati ad aspetti riprovevoli, tipici della condizione morale dei soggetti che li posseggono.
Ogni società stabilisce quali siano le caratteristiche che devono essere dimostrate da ciascun membro, per poter essere considerato appartenente ad essa. Quando ci si trova di fronte a un estraneo è possibile che il suo aspetto consenta di valutare a priori a quale categoria appartenga e quali siano gli attributi che manifesta. Ciò consente, in altre parole, di stimare la sua "identità sociale".
Ci lasciamo trascinare dalle nostre presupposizioni e spesso finiamo col predefinire delle caratteristiche inequivocabili, che creano veri e propri pregiudizi.
In questo senso, secondo Goffman, assegnamo a certe persone, una sorta di identità sociale virtuale, che contiene attribuzioni puramente speculative, per nulla confrontabili coi fatti. Si tratta di proiezioni di stereotipi spesso mediate anche da sentimenti di paura e di inferiorità, che vengono riversati sulle persone estranee in modo acritico. Così, l’immigrato, può essere oggetto di numerose attribuzioni di connotati negativi e deformati. Può essere visto come un probabile criminale, sicuramente un destabilizzatore dell’ordine pubblico, il fruitore indebito di una parte di assistenza sanitaria e il beneficiario di attenzioni sociali (relative a beni primari come la casa, la salute, i servizi socio-educativi) del tutto immeritatamente o a scapito degli autoctoni.
Al contrario esiste anche una identità sociale attualizzata che rappresenta la categoria a cui possiamo dimostrare di appartenere gli attributi lecitamente assegnati a ogni persona, indipendentemente dalla sua condizione di "status".
Continuando nel nostro esempio, è possibile che l’immigrato possegga attributi che lo rendono diverso dagli altri, dai membri della categoria alla quale appartiene. Attributi tuttavia meno desiderabili. Possiamo così giudicarlo come una persona cattiva, o pericolosa, o psicologicamente più debole.
"Nella nostra mente, viene così declassato da persona completa e a cui siamo comunemente abituati, a persona segnata, screditata". (Stigma. L’identità negata, p. 3)
Si tratta di un attributo che produce un intenso discredito, a volte considerato come un handicap.
Una persona che possiede uno stigma non viene considerata come completamente umana. Da una simile premessa è possibile far discendere una serie di discriminazioni, mediante le quali riduciamo le sue capacità di esprimersi sul piano esistenziale, quando non si tratta addirittura di ridurre le sue possibilità di vita. Anche se questo viene effettuato in buona sostanza mediante strumenti inconsci.
Costruiamo ideologie in grado di razionalizzare i nostri atteggiamenti difensivi di natura emotiva, tentando di spiegare con mezzi "scientifici" le ragioni della sua inferiorità e preoccupandoci di indicare i pericoli a cui la persona portatrice dello stigma può esporre.
Scrive Goffman: "Dunque, uno stigma è in realtà un genere particolare di rapporto tra l’attributo e lo stereotipo, ma io non ritengo che si debba continuare a definirlo sempre così, in parte perché ci sono attributi importanti che, quasi a tutti i livelli della nostra società, sono fonte di discredito.
Il termine stigma ed i suoi sinonimi contengono in sé una doppia prospettiva. L’individuo stigmatizzato presuppone che la propria diversità sia già conosciuta, o a prima vista evidente, oppure presuppone che non sia conosciuta dai presenti né immediatamente percepibile?
Nel primo caso si ha a che fare con la sorte dello screditato e nel secondo con quella dello screditabile. Questa è un’importante differenza anche se è probabile che l’individuo stigmatizzato debba subire ambedue le situazioni." (Stigma, p. 4)
Anche sul piano dei comportamenti stigmatizzato e stigmatizzabile prevedono canovacci differenti d’azione.
La prerogativa dello stigmatizzabile è quella di preservare l’area del segreto alla quale è collegato il suo possibile screditamento. Utilizzando una terminologia cara a Goffman, possiamo dire che egli tenti di costruire una faccia che gli consenta di entrare in contatto con gli altri senza manifestare i segni del suo stigma.
Coprire la sua vera identità può consentirgli di non mostrare lo stigma e quindi di evitare il conseguente screditamento, con le implicazioni che questo può avere a livello delle relazioni interpersonali. Lo screditabile dedica molto del suo tempo a controllare le informazioni che possono giungere dal passato e quindi riportare alla luce gli elementi dello stigma. Una lettera che arriva da lontano, l’incontro con una persona che ha a che vedere con lo stigma, ecc. Chi vive in questa posizione non può permettersi che le cose vadano da sé ed è costretto a un vero e proprio iperattivismo di controllo, copertura e cancellazione di eventuali segnacoli traditori della sua realtà.
Si tratta di un’esistenza affaticante e problematica. Tuttavia la prospettiva dello screditamento crea i presupposti per una motivazione all’azione estremamente efficace e potente.
Le cose cambiamo nel momento in cui la dissimulazione viene scoperta e lo screditamento diviene un fatto reale. Ora l’attivismo perde totalmente i suoi connotati vantaggiosi; il soggetto si sente scoperto e non hanno più senso i meccanismi di copertura che lo costringevano nella sua posizione di screditabile.
Nel primo caso l’identità personale del soggetto aveva ancora uno svincolo rispetto alle attribuzioni di significato sociale che la scoperta dello stigma comporta.
Lo stigmatizzato possiede da questo punto di vista una vera e propria carriera morale: la prima fase consiste nell’imparare a conoscere e a interiorizzare il "punto di vista" delle persone "normali", facendo proprie le credenze che i membri della società hanno sull’identità e l’idea generale di cosa vuol dire avere uno stigma.
In un secondo momento la persona impara ad essere in possesso di uno stigma in modo approfondito rispetto alle sue conseguenze.
In ogni caso le fasi di questa carriera sono segnate da cambiamenti della struttura di base della personalità, dovuti alle interazioni sociali con gli altri. Interazioni di tipo "faccia a faccia", generate e gestite nell’ambito del teatro pubblico e privato della vita quotidiana.
La metafora drammaturgica si rivela centrale nel modello goffmaniano.
Come osserva A. Salvini "all’interno della prospettiva drammaturgica, Goffman considera l’individuo nella duplice veste di attore e di personaggio. Come personaggio, l’individuo produce, o meglio realizza, un’immagine le sue qualità positive, ideali e stereotipiche, devono essere evocate dalla rappresentazione. Come attore, il suo scopo è di perpetuare una particolare definizione della situazione ed una versione della realtà" (1983).
Il pubblico attribuisce un significato sociale all’esistenza dell’individuo, indicando di conseguenza il percorso per una sua identificazione sociale. Come Goffman scrive nel 1969: "nella nostra società il personaggio che uno rappresenta e il proprio sé sono in un certo modo identificati e il sé, in quanto personaggio, è in genere visto come qualcosa che alberga nel corpo di colui che lo possiede" (La vita quotidiana come rappresentazione, p. 288).
Il personaggio definisce la sostanzializzazione delle attribuzioni sociali cui va soggetto l’individuo. E’ una sorta di replica di un copione che la società stabilisce per lui e che il controllo interpersonale faccia a faccia conferma nella quotidianità del suo ripetersi.
Nella formazione del personaggio entra in gioco il valore stesso delle rappresentazioni sociali, che danno senso alla parte che il soggetto recita.
"Il sé, quindi, come personaggio rappresentato non è qualcosa di organico che abbia una collocazione, il cui principale destino sia quello di nascere, maturare e morire: è piuttosto un effetto drammaturgico che emerge da una scena che viene rappresentata" (La vita quotidiana come rappresentazione, p. 289).
In tal senso per Goffman, come per Mead, il sé è il frutto di una costruzione sociale che si genera e si produce nei processi interattivi.
Si tratta di una forma di attribuzione di identità sociale a cui il soggetto viene, col suo consenso, relegato da altri uomini. Questo determina un certo frame che definisce le forme dell’interazione e le modula.
Nella definizione del sé entra tuttavia anche l’altra dimensione dell’identità, che appartiene più all’attore che al personaggio. Come abbiamo visto la funzione dell’attore è quella di dare significato a una versione della realtà; versione che può mutare, non essendo stereotipicamente collegata al personaggio. L’attore può infatti scoprire di possedere meno vincoli di quanto le rappresentazioni sociali gli vogliano attribuire, definendo una certa distanza dal ruolo, che caratterizza il suo spazio di libertà.
E’ comunque una libertà relativa "dal momento che anche la distanza dal ruolo, se da un lato segna un distacco, o una difesa o un disprezzo, o un divario tra obblighi ed esecuzione, dall’altro è una libertà che l’individuo si prende rispetto ad un sé situato e allo scopo di obbedire ad altre costrizioni anch’esse sociali" (Espressione e identità, p. 122).
Secondo Goffman esiste uno spazio intermedio fra la definizione del sé e l’interazione. Egli lo definisce nel concetto di faccia.
"la faccia di una persona non è evidentemente qualcosa che fa parte del/suo/corpo, ma piuttosto qualcosa che è diffuso nel flusso degli eventi che hanno luogo durante l’incontro e che diviene manifesto soltanto quando di questi eventi vengono interpretate le valutazioni che in essi sono espresse" (Modelli d’interazione, p. 8).
La faccia contraddistingue il senso che la società attribuisce alle varie modalità espressive del sé. Una volta acquisita una faccia l’individuo se ne appropria come se fosse di sua proprietà, ma così non può essere in quanto i processi sociali d’interazione possono revocarla o modificarne sostanzialmente le connotazioni.
A partire dal concetto di sé e di faccia, Goffman concentra la sua attenzione sul valore delle interazioni sociali (faccia a faccia) e sul potere regolativo che esse hanno sul piano dei comportamenti e delle espressioni simboliche che appaiono a livello dello scambio relazionale.
In conclusione i punti fondamentali dell’interazione possono essere riassunti in tre punti: a) costruzione del sé a partire da significati di tipo sociale; b) attribuzione del senso che gli altri concentrano sulla "faccia"; c) focalizzazione sulle condotte individuali per valorizzare il potere di reciprocità che possiede il contatto con l’altro.
A tale proposito assume un significato fondamentale il fenomeno della devianza. In "Modelli di interazione" scrive: "Anche se psichiatri e psicologi coraggiosi hanno cercato di risalire alle radici patologiche di tutto, dai delitti alla slealtà politica, diciamo che i delinquenti comuni violano l’ordine della proprietà, i traditori l’ordine politico, le coppie incestuose l’ordine della parentela, gli omosessuali l’ordine dei ruoli sessuali, i drogati l’ordine morale e così via. Dobbiamo perciò chiederci che tipo di ordine sociale sia specificatamente connesso al comportamento psicotico ... Agire il modo psicotico, quindi, significa molto spesso associarsi nel modo sbagliato con altri quando si è alla loro presenza diretta" (Modelli d’interazione, p. 145, 153).
E continua: "Si esamini innanzitutto la regola della condotta della quale il comportamento offensivo costituisce un’infrazione e si cerchi poi di completare il gruppo delle regole delle quali fa parte quella offesa, tentando al tempo stesso di individuare la cerchia sociale o il gruppo al quale le regole si riferiscono e che quindi è offeso dall’infrazione di una di esse" (Modelli d’interazione, p. 155).
L’analisi della devianza acquisisce un valore metodologico, comprendendo sia la riflessione sulla criminalità, che quello sulla malattia mentale, che portano in primo piano le carriere del delinquente e del malato di mente, con le relative procedure di etichettamento, che la società ha elaborato, e che noi affronteremo con maggiore approfondimento nel capitolo sulla criminalità.
Riassumiamo il lavoro di Goffman sulla devianza riprendendo i dieci punti che A. Salvini ha estrapolato dall’opera goffmaniana e che indicano con chiarezza il percorso effettuato dallo psicosociologo americano.
"1. la devianza è un fatto scontato perché l’esistenza di norme implica la loro trasgressione; 2) la diversità come fatto negativo può essere spiegata attraverso quelle regole morali che l’additano come tale; 3) solo certi atti devianti sono suscettibili d’incorrere in un processo di etichettamento patologico e di esclusione istituzionale; 4) non esistono chiare lineee di demarcazione sociale tra ciò che è normale e ciò che è deviante; 5) le norme di condotta sociale sono di per sé contradditorie e anche il fatto di rispettarle può creare conflitti, confusioni ed occasioni di devianza; 6) esistono certe procedure istituzionali volte a convalidare e realizzare quanto il decreto di emarginazione ha sanzionato; 7) non esiste ‘malattia mentale’ che non sia primariamente una condotta inappropriata a certe situazioni; 8) analizzare una struttura sociale, significa descrivere il sistema normativo su cui essa si fonda; 9) attraverso lo studio delle trasgressioni situazionali si può risalire alle regole della normale interazione faccia a faccia; 10) l’analisi dei meccanismi di controllo della devianza ci permette di comprendere i momenti e le forme di repressione adottate dalla società e, paradossalmente, di scoprire come esse alimentino i fenomeni stessi che sono chiamate a combattere, cioè la devianza" (A. Salvini, 1983, pp. 187-188).
Sui temi della devianza ritorneremo in un capitolo apposito all’interno di questo stesso modulo e vedremo in profondità di analizzare le componenti antropologiche e sociologiche che stanno alla base di questo complesso fenomeno psico-sociologico.
http://www.psicologiainvestigativa.it/materiali/stigma.htm

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